PlayLIFE: Voglia di speranza

PlayLIFE: Voglia di speranza

Sempre più frequentemente, nella mia attività di psicoterapeuta, mi capita di lavorare con famiglie di adolescenti arrivate “ai ferri corti” con i loro figli. Genitori cui è successo di sentirsi inadeguati ai loro figli; genitori che si sentono impotenti dinanzi all’indifferenza con cui i ragazzi collezionano a scuola valutazioni insufficienti e “note” relative a condotte, ritenute inadeguate nella realtà scolastica.

Nulla sembra riuscire ad aprire porte che consentano a questi adulti di incontrare i ragazzi e di comunicare in modo efficace, o che spingano i figli a cercare, mettendosi in discussione, i genitori, cosa che permetterebbe di creare un “senso”, un “significato” a ciò che al momento sembra ad entrambi inspiegabile.

Ho letto sui giornali l’episodio, avvenuto recentemente, di un ragazzino di tredici anni che, rientrando a casa con l’ennesimo brutto voto, si vede distruggere il suo gioco preferito e reagisce in modo molto forte: esce sul balcone di casa e si butta giù.

A ben vedere, questa è una storia come tante, in un giorno come tanti, in una famiglia comune. Come molte sono le famiglie che in questo periodo si trovano a negoziare con i loro figli, cercando di comprendere che cosa stia succedendo, come poterli sostenere nel complicato periodo di passaggio dall’età bambina a quella adulto-giovanile.

Un’età in cui è molto difficile riuscire a definire obiettivi precisi e portarli avanti in modo costante, perché ogni ostacolo, ogni difficoltà sembra intaccare l’identità, cancellare parti dell’individualità.

Infatti, le sconfitte, gli ostacoli non superati, rischiano di essere tradotti dai ragazzi in un ritornello interiore ed inconsapevole: «Io non sono capace… non ce la farò mai, sono uno stupido…». A volte se lo sono sentiti dire dagli altri, altre volte l’hanno udito come commento in una discussione tra pari o tra adulti. Quello che poteva essere un semplice segnale di un errore, che andava corretto per raggiungere la meta, diventa un modo per definire un’identità: “quella dell’incapace”.

Da questo punto di vista possiamo comprendere come mai a volte per i ragazzi possa essere più semplice decidere che quella della scuola è una sfida che non interessa vivere né vincere. Perché le insufficienze sembrano disegnare nel tempo la conferma delle proprie “deficienze”, la realizzazione dei propri timori, invece di segnalare l’area da cui ripartire per recuperare le proprie lacune.

Inoltre, sovente, un adolescente in questa posizione comincia a manifestare il proprio malessere verso se stesso e ciò che sta avvenendo, principalmente con due condotte scomode. L’atteggiamento aggressivo, per cui il ragazzo si comporta in modo spavaldo, fino a rischiare di essere etichettato come un possibile bullo; o la condotta vittimistica, per cui man mano sembra perdere interesse verso tutto e verso tutti, spegnendosi nelle relazioni con gli amici e richiudendosi sempre di più su se stesso, utilizzando, per evadere dalle emozioni e dai pensieri spiacevoli, giochi elettronici, televisione o viaggi in rete.

In casa, normalmente, questo tipo di esperienza mette in difficoltà tutti.

Che cosa si può fare quando un ragazzino sembra collezionare brutti voti, senza accorgersi che si sta mettendo in difficoltà? Sovente in queste situazioni i giorni e i quadrimestri passano, senza trovare soluzioni efficaci. Non sembrano essere sufficienti neanche i colloqui con i professori, il tentativo di responsabilizzare i ragazzi, promettendo loro una serie di ricompense.

I “mancati successi” cominciano a “riempire” le relazioni di queste famiglie d’impotenza e rabbia.

Per riuscire a comprendere che cosa stia succedendo abbiamo bisogno di provare ad osservare queste situazione da “fuori”.

Normalmente un ragazzino che si comporta in questo modo sembra perpetuare un’esperienza negativa, nonostante le restrizioni, a titolo punitivo, che seguono le sue valutazioni scolastiche negative.

In casa la tensione familiare sale, insieme alla sensazione di non riuscire a capire questo ragazzo e di non poter fare nulla che funzioni. Così uno dei primi step di “crisi” è il non trovare un punto in comune, qualcosa che permetta a tutti di incontrarsi attorno ad un tavolo, osservando la stessa realtà, lo stesso oggetto o lo stesso avvenimento. Passo dopo passo gli uni e gli altri si sentono sempre più isolati, impotenti ed incompresi.

Alcune volte si arriva a cercare di evitare i momenti d’incontro e reciproco, per limitare le occasioni di lite e di frustrazione; perché, come un dente che duole, tutte le volte in cui ci s’incontra si finisce inevitabilmente per parlare delle questioni che generano attrito, utilizzando battute ironiche o sarcastiche, silenzi o sguardi che affermano il proprio dissenso e difendono la propria posizione.

In queste situazioni osservo attentamente il gioco relazionale che corre tra i componenti della famiglia, lo scambio che traduce le tensioni in agiti.

Capita spesso che si creino delle alleanze tra le persone, legate al modo in cui queste si collocano e si disegnano attorno al problema.

Proverò ad essere più chiara portando un esempio.

G. ha quindici anni, i suoi genitori e la sorellina di otto giungono in studio da me disperati. G. sta rischiando di perdere l’anno scolastico a causa delle assenze e delle insufficienze. Dopo una prima presentazione, mi faccio raccontare da G. che cosa è successo e mi accorgo che durante la sua narrazione i due genitori fremono. Proseguendo nel lavoro comprendo che la difficoltà di G. viene accolta benevolmente dal padre, ma contemporaneamente viene vissuta come inaccettabile dalla madre. G. sembra conoscere queste differenti posizioni genitoriali; pertanto, durante il suo racconto, oscilla con lo sguardo alla ricerca del consenso dell’uno o dell’altra, perdendo il filo del discorso.

A quel punto io chiedo alla sua sorellina, che è riuscita a scampare alla bufera, come si stia sentendo; lei, sorridendomi, risponde: «Io bene, per fortuna nessuno mi vede, ma per G. è un casino, qualsiasi cosa faccia, sbaglia. Sembra difficile, per lei, far contenti sia mamma che papà». Sento G. tirare un sospiro di sollievo e a quel punto sorrido, ringrazio la saggezza dei piccoli e, guardando mamma e papà, esprimo loro la mia stima per essere capaci di mantenere le proprie posizioni e i propri sguardi differenti, anche quando le loro figlie sembrano metterli in difficoltà.

I due genitori si guardano tra loro. Insieme proviamo a riconoscere i diversi punti di vista come una risorsa. L’aria nella stanza si distende e G. esce dallo studio dicendo che l’indomani proverà ad andare a scuola.

Dopo questo primo passaggio possiamo cominciare a lavorare, negli incontri successivi, in un clima di stima e fiducia reciproca, che ci consente man mano di esplicitare fatiche e perplessità e di scardinare il “sintomo”, ovvero il problema scolastico di G.

In questo modo possiamo, con dei semplici interventi psico-pedagogici, smontare, mattone dopo mattone, i vari elementi che avevano condotto quella famiglia al limite della sopportazione, provando a comprendere che cosa stia accadendo e perché.

Sovente i genitori rischiano di arrivare all’esasperazione, combattuti tra l’essere responsabili ed educatori da un lato, e le fatiche e i problemi della propria vita dall’altro ( lavoro, relazione di coppia, gestione dei ragazzi…).

Accade loro di provare ad intervenire su ciò che, agli occhi dell’adolescente, sembra essere importante: gruppo di amici, telefonino, computer, televisione e giochi.

L’esasperazione li può portare ad un agire in assenza di pensiero pregresso (acting out), un’azione decisa in preda all’urgenza, all’ansia, alla rabbia, che può risultare come un’esplosione, legata ad un momento. Successivamente, l’impossibilità di spiegare ciò che accade, il non condividerlo, il non poterlo motivare, invece di aiutare a capirsi ed incontrarsi, finisce con il separare sempre di più.

Nella situazione di qualche mese fa, accennata all’inizio dell’articolo, un padre decise di distruggere la Playstation del figlio. Individuava nel gioco ciò che distraeva il figlio dallo studio, isolandolo, portandolo a non occuparsi più delle cose concrete della sua vita. Così, arrabbiato, pensò di riuscire a scuotere il figlio, di farlo reagire, distruggendo il gioco a lui così caro, cercando di portarlo a riagganciarsi alla realtà.

Nell’episodio narrato sui giornali, il ragazzo, forse anche perché non era pronto ad una reazione genitoriale così forte, fece qualcosa di eclatante, alzando “il tiro”.

Sovente in terapia familiare capita di assistere allo stesso gioco relazionale dinanzi alle incomprensioni che si creano tra adolescenti e genitori. In queste situazioni è come se gli uni divenissero “sordi” alle parole ed alle comunicazioni degli altri e viceversa. Si crea il meccanismo del “vantaggio secondario”: si persegue cioè a tutti i costi un beneficio mediante un comportamento dannoso, che fa stare male, perché quello stesso comportamento porta con sé dei vantaggi più grandi dei danni manifesti.

Un esempio molto diffuso è quello dei bimbi che sviluppano sintomi apparentemente immotivati, per concentrare su di sè l’attenzione della famiglia, solitamente turbata da altri problemi relazionali.

Alcune famiglie, in queste situazioni, vanno a cercare un “terzo” che li aiuti a tradurre i messaggi comunicativi, così da dilatare lo spazio per l’ascolto nelle difficoltà: passo dopo passo lo psicologo aiuta i membri della famiglia ad accorgersi di quello che sta succedendo e li introduce al concetto di “vantaggi secondari”.

Spesso queste situazioni sono anche caratterizzate da un altro processo relazionale comunemente definito con un termine specifico: “escalation simmetrica”.

Individuiamo con questo termine il processo di alzare “il tiro” o la posta in gioco ad ogni scambio relazionale. In una situazione conflittuale, tale processo relazionale risulta pericolosissimo, perché il bisogno di vincere la battaglia rischia di portare i contendenti a perdere di vista il cuore della relazione, ciò che la mantiene in vita. Un esempio mirabile a riguardo ci viene proposto dal film: “La guerra dei Roses”, dove la forza e la passione che avevano portato la coppia di protagonisti a scegliersi e sposarsi, finisce nel tempo, con il processare una separazione, ricca di condotte distruttive, fino a raggiungere l’apice con due condotte omicide, portando il conflitto ad esaurirsi con la morte di entrambi.

L’escalation simmetrica nasce, in una relazione, tutte le volte in cui i soggetti che partecipano all’atto comunicativo non riescono a far convergere le proprie risorse sul “contenuto” della comunicazione e si lasciano distrarre da ciò che interviene tra loro, “inquinando” i fatti e i dati di realtà con le reciproche paure e con il bisogno esclusivo di vincere la partita, senza tener più conto di se stessi, dell’altro e di ciò che sta avvenendo tra loro.

Così, nelle situazioni di insuccesso scolastico, ci troviamo ad avere a che fare con genitori che cercano davvero di fare “il bene dei loro figli”, a costo di essere impositivi, ma così facendo, si allontanano man mano dai loro ragazzi “reali”, veri, concentrandosi su ciò che i loro figli “potrebbero o dovrebbero essere”.

Così i ragazzi si sentono traditi e restituiscono ai loro genitori la stessa dinamica relazionale, svalutandoli anche con il confronto spietato con i genitori dei loro amici.

Tutto questo scatena una guerra relazionale, togliendo l’attenzione da ciò che è davvero fondamentale, ovvero le persone che compongono quella famiglia.

Purtroppo, per gli adolescenti, la modalità relazionale legata al conflitto può amplificarsi e prendere il sopravvento, essendo per loro, questa, l’età privilegiata per “sperimentarsi” sia come adulti in erba che come comunicatori efficaci. Passare di discorso in discorso, di situazione in situazione, impratichirsi con le ipotesi ed i ragionamenti teorici, può portarli a perdere il contatto con la realtà, concentrandoli su una realtà virtuale e perdendo di vista le persone reali. Così, passo dopo passo, un gioco elettronico, un telefonino, un computer, possono divenire per loro, nel tempo, l’occasione per sentirsi finalmente al sicuro e a “casa”, senza temere sconfitte o fallimenti. In questo modo gli adolescenti rischiano di sostituire le relazioni e le occasioni di confronto con i pari e con i genitori, il mondo reale, con una realtà virtuale, apparentemente più comoda, ma che purtroppo finisce con l’isolarli da ciò che può aiutarli a crescere, pur faticosamente.

Io resto affascinata dalle fantastiche opportunità di dono e gratuità che si sprigionano all’interno delle famiglie. Penso che sia importante poterle aiutare scoprendo come, ogni volta che ci si ritrova a discutere, litigare, o dinanzi ad un problema che sembra dividere, in realtà ci si avvicina al “cuore” della relazione: basta non aver timore…

In fondo “coraggio” sta per “con tutto il cuore”.

Quando ci si trova dinanzi ad un processo di escalation simmetrica del conflitto, se ne può uscire rimettendo al centro il senso di ciò che siamo, costruendo insieme lo spirito e l’essenza di famiglia, domandandoci quale sia il “vantaggio secondario”, ciò che “stiamo guadagnando” nel fare e dire quello che apparentemente sembra solo nuocerci.

Questo passaggio è simile a quello che viviamo quando evolviamo dal conoscere semplicemente una nozione, un’idea, al condividerla e viverla nel nostro quotidiano.

Quindi, perché non ci ispiriamo in modo sano proprio ai giochi elettronici? Creiamo dei livelli, che man mano segnalino i nostri miglioramenti, osserviamo ciò che accade e cerchiamo di comprendere quali siano le richieste reali, consapevoli e inconsapevoli; così potremo utilizzare a nostro vantaggio ciò che prima vivevamo solo come un ostacolo, potendo tornare a vivere pienamente e consapevolmente il nostro essere educatori e genitori.

Siete pronti? Allora accendiamo le consolle, e… Buon PlayLIFE a tutti!

Rosa Il Grande

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